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Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

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cioce
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Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da cioce »

Non è una figura semplice da inquadrare, Jovanotti. Sembra esserlo. Lo sembra per chi lo ama incondizionatamente (ne dirà tutto il bene possibile ed immaginabile), lo sembra per chi non lo sopporta (tirerà fuori un sacco di argomenti sulla sua inconsistenza artistica e sui suoi “peccati originali” targati Cecchetto). In realtà le cose da dire sono molte, le riflessioni da fare altrettante. Anche da parte nostra, di Soundwall, sì: perché piaccia o non piaccia – e nello stesso quartier generale nostro le opinioni sono sfaccettate – si tratta di uno dei pochi artisti italiani, se non l’unico, capace di radunare folle da stadio ma al tempo stesso di avere uno sguardo sulle scene musicali “altre”, quelle più interessanti, quelle più lontane dal pop addomesticato, quelle più vicine ad esperienze sentite e globali – come l’elettronica sa, deve o dovrebbe essere. Ecco allora il perché di questo lungo articolo, articolo che nasce dall’essere andati ad uno dei suoi concerti di questo tour negli stadi; ed ecco anche – andando dritti per dritti – una distesa videointervista che ci ha concesso. Per inquadrare il personaggio a trecentosessanta gradi: con le nostre parole, con le sue parole.

Damir Ivic.

[youtube]TobJY3Agj_U[/youtube]

Il 16 aprile del 2003, Michael Jordan gioca la sua ultima partita in NBA contro i Philadelphia 76ers di Allen Iverson. La maglia che indossa non è quella storica, numero 23, dei Chicago Bulls, ma quello molto meno riconoscibile degli ex Washington Bullets.
È una gara senza storia, si sa che i Wizards perderanno e che Jordan smetterà di giocare appena terminato l’ultimo quarto, eppure alla gente non interessa. Tutti sono lì per un motivo: avere un ruolo, anche se da comparse, in una delle storie sportive più affascinanti di sempre.
E mentre urlano a squarciagola il nome di Michael, lui se ne sta sorridente e sornione seduto in panchina pensando seriamente di salutare il basket con una grande beffa: “No, col caz* che ve li faccio vedere gli ultimi momenti di Jordan su un campo”.
Nella sua carriera Jordan è stato amatissimo, ma anche odiatissimo. Non è mai stato considerato uno simpatico: i media non potevano non avere a che fare con lui, ma qualsiasi giornalista americano davanti alla domanda di una cena con Charles Barkley o Jordan avrebbe comunque preferito il primo. Jordan era un perfezionista pieno di vizi, puntava solo a vincere, vedeva competizione ovunque, voleva essere ricordato come il migliore, ma il migliore a modo suo.
Non so perché mi sono messo a pensare a Michael Jordan dovendo scrivere di Jovanotti, ma c’è stato un momento del trionfale e ampiamente discusso concerto di quest’ultimo allo Stadio Olimpico di Roma in cui il faccione di His Airness mi è tornato di colpo in mente.
Perché alla fine Jordan sul parquet c’è entrato, a due minuti scarsi dalla fine, si è fatto fare fallo, ha tirato e segnato i due liberi che gli hanno permesso di chiudere la sua ultima stagione in NBA con 20 punti di media a partita, e nel clamore generale è tornato a sedersi. La partita è andata avanti, ma nessuno la guardava più, gli sguardi erano tutti verso la panca. E Jordan voleva goderseli per bene. Lorenzo Cherubini chiude il suo concerto più ambizioso e autocelebrativo con Penso positivo, il brano che ancora spiega al meglio perché Jovanotti sia così ugualmente santificato e odiato. L’enorme maxischermo lungo come tutta la tribuna dell’Olimpico mostra il suo sguardo come se si trattasse di un film di Sergio Leone, poi l’inquadratura si allarga e appare un sorriso grande quanto il mondo e a cui viene spontaneo associare il sonoro di quella risata famosa come un logo. Quel sorriso è Jovanotti che si prende il suo personale “momento Jordan”: segna i suoi tiri liberi, fa impazzire la folla e poi si ferma a guardarla. Un tour negli stadi, praticamente sold out dalla prima all’ultima data, è un lusso che possono concedersi in pochi, e non solo tra gli artisti italiani; ma un tour di questo genere qua, ambizioso in ogni suo aspetto, per certi versi anche troppo, è davvero roba per pochissimi. Forse, nel nostro paese, solo roba da Jovanotti.
Lo stadio, si sa, è considerato il punto di arrivo massimo per ogni musicista rock o popstar degna di questo nome. Jovanotti non è rock, e per quanto sia una delle poche star del pop italiano a essersi conquistato sul campo la credibilità, per lo più partendo da uno svantaggio (Cecchetto, la DeeJay’s Gang, il marchio simbolo dell’usa e getta anni ’80), fa davvero specie vederlo riempire spazi da cinquanta/sessantamila persone. Per tutta una serie di ragioni, e la prima ha proprio a che fare su chi è Jovanotti e da dove viene: Lorenzo Cherubini ha cominciato come dj e dj è rimasto nell’animo, anche se fa le canzoni melense al pianoforte e altre dove rappa in un modo che fa tenerezza ma che è comunque solo suo. Ha la testa del dj, gli ascolti del dj e anche la capacità di sapere leggere il presente e capire dove andrà il futuro che dovrebbe essere tipica proprio di certi dj.
Il suo grande spettacolo celebrativo (25 anni di carriera) parte proprio da lì: da questo approccio alla vita e alla musica che lo rende diverso e lontano da tutto il resto del circuito mainstream italiano. Per questo quando uno come lui sceglie come apertura una band come i Tre Allegri Ragazzi Morti sai per certo non è questione di pose o imposizioni discografiche: Jovanotti dà l’idea di essere uno che ancora investe il suo tempo nelle cose che gli piacciono. Se chiama i vari Congorock, Benny Benassi. Ralf, Pink is Punk e Coccoluto, lo fa essenzialmente perché vuole dare un segnale, ricordare e ricordarsi da dove arriva. E poco importa se la gente preferisce cantare in coro Roma Capoccia piuttosto che ballare, o se i dj sono costretti a esibirsi sì in uno stadio ma con un volume da cameretta, l’importante è che ci siano anche se per il pubblico pagante e adorante contano poco o niente.

D’altronde Jovanotti è un atipico che fa gara a sé. Gioca in un campionato del tutto particolare dove spesso vince per mancanza di avversari, anche se la sua partita più lunga e difficile, quella contro il pregiudizio, sembra ancora lontana dalla fine. Per dirla con Fabio De Luca: “Jovanotti ci stava simpatico anche quando ci stava sul caz*”, e questa frase che racchiude un mondo e un punto di vista può essere declinata nelle maniere più disparate.
Perché Jovanotti non faceva cag* anche quando faceva cag*. Sarà un fatto generazionale, non lo so, ma chi scrive aveva nove anni quando è uscito “For President” e pochi strumenti cognitivi per capire che quella roba lì era la versione brutta del rap old school e dalla Italo disco. “Quella roba lì”, a me figlio di genitori che ascoltavano i Pink Floyd e i cantautori, sembrava la rivoluzione. Il filo d’Arianna che andava seguito per arrivare ai Beastie Boys, ai Run DMC e i Public Enemy. E Jovanotti, a modo suo, resta rivoluzionario anche quando viene accolto nei salotti buoni, anche nel passaggio da simbolo dell’edonismo reaganiano a manifesto vivente del buonismo veltroniano, anche quando inciampa in dischi brutti, canzoni brutte e uscite infelici.
Jovanotti resta uno con una visione chiara, esplicita e in qualche modo anche troppo scoperta. È attaccabile sotto ogni punto di vista, ma è pure bravissimo a fare bene quello che fa.
È riconoscibile, eppure mai davvero uguale a se stesso, è popolare ma anche parecchio coraggioso (se ci pensate bene è uno che ha fatto un singolo interamente costruito su un loop di 808, un singolo “parlato” e neanche troppo catchy che è diventato un successo radiofonico incredibile), non ha una gran voce, ma è un performer di livello assoluto. Uno capace di portare nelle arene uno spettacolo grandioso e molto avanzato dal punto di vista tecnologico, mettendo comunque al centro di tutto il corpo. Il suo.

In passato mi è capitato, per lavoro, curiosità o semplice sprezzo del pericolo, di andare a vedere i megashow di altre superstar italiane e me ne sono sempre tornato a casa con l’idea di avere assistito a delle rappresentazioni perfette di cosa intendiamo quando ci rifugiamo nella frase fatta: “Vorrei ma non posso”. Come se il concetto labranchiano di trash come rappresentazione bassa di un momento alto fosse costretto a rivivere nelle pedane a scomparsa di Vasco Rossi o nel palco in stile U2 alla Ligabue. Con Jovanotti non accade niente di tutto questo, il suo show è uno show credibile, internazionale negli intenti e non solo nella realizzazione. L’uso dei visual, il modo in cui alcuni pezzi vengono riarrangiati con l’idea di creare un flusso continuo, senza pause, è più simile a un live di elettronica che a un concertone. Il suo riferimento sembrano volere essere più gli Underworld e i Chemical Brothers che Madonna, e davvero si fa fatica a trovare precedenti del genere nel nostro paese. Andare a vedere Jovanotti dal vivo è come andare al Sensational: puoi non essere un suo fan, non apprezzare la sua musica, ma non puoi non divertirti. Puoi tifargli contro, proprio come facevamo da ragazzi con Jordan, ma non puoi fingere di non capire perché la squadra che vince sia più o meno sempre la sua.

Fonte: http://www.soundwall.it/fare-gara-a-se- ... jovanotti/" onclick="window.open(this.href);return false;
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mdj64
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Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da mdj64 »

Ottimo articolo, lo condivido in pieno.
E se è così, vuol dire che dal Jovanotti-show si possono ricavare importanti insegnamenti per un dj.
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spazialex
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Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da spazialex »

Jovanotti è uno che ti fa riflettere, che non occorre essere dei fenomeni per essere dei Geni... del resto, chi avrebbe scommesso 2 lire sullo speaker di Puntoradio, Vasco Rossi?
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Morpheus

Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da Morpheus »

beh, molti a Bologna anche più di 2 lire. Tanti, quelli che riempivano i suoi concerti in piazza
se poi uscivamo dai confini della provincia di bologna modena e poco più, allora sì, potevamo guardare il Vasco in un campetto di calcio a Porto Torres con altre poche decine di persone invece che le migliaia dell'Emilia... :)

ma non era un fenomeno tanto raro, in quegli anni e in certe zone d'italia più ricettive. Posso testimoniare di molte altre situazione come per esempio i Simple Minds che anche fuori dall'Inghilterra raccoglieva poche centinaia di spettatori nei teatri mentre a Bologna ne facevano 13mila al Palazzo dello Sport o gli U2 "costretti" a raddoppiare la data del teatro tenda che conteneva solo 5000 persone
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The_Animal_DJ
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Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da The_Animal_DJ »

Con l'unica differenza che Vasco quando era a PuntoRadio cantava Albachiara mentre Jovanotti quando era a Radio DeeJay cantava Gimme Five con i pantaloni calati... il concetto di "genio" mi sembra molto soggettivo in questo caso!!!

Poi i soldi e la megalomania ha portato entrambi a cantare canzoncine scadenti alla stessa maniera... ma i percorsi artistici che li hanno portati a fare musica scadente ad entrambi sono diversi!!!

Il Vasco di adesso mi fa schifo ma amavo il Vasco degli inizi... il Jovanotti di adesso mi fa schifo alla pari del Jovanotti degli inizi!!!
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Morpheus

Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da Morpheus »

il primo singolo di vasco era jenny/silvia ma è un punto a favore di jovanotti che non aveva le stesse condizioni di cui ha potuto godere vasco agli inizi.

Vasco incise il 45 per la Borgatti che faceva liscio e il primo album lo si vide praticamente solo a Bologna. Albachiara era nel secondo LP. Un'altra radio di fondamentale importanza, forse molto di più di Punto Radio era BBC Bologna già conosciuta come Il Premiato Circo Volante del Barone Rosso con logo disegnato da Bonvi dove ci lavorano personaggi come Red Ronnie ma giusto per dirne uno. E' da quelle serate, di quelle radio che Vasco cominciò a volare. Grazie a Gaetano Curreri, a Massimino Riva, Maurizio Solieri...
Jovanotti invece aveva Cecchetto che aveva una sua idea di musica (musica... vabbé).
Se andiamo a fard una piccola storia della scuderia Cecchetto vediamo che chi si è staccato abbastanza velocemente, ha avuto modo di crescere e mettere a fuoco una propria personalità. Jovanotti è passato da Gimme Five a pezzi di tutt'altra levatura ma anche un Sandy Marton che è passato da un ignobile people from ibiza ad essere una personaggio importante e quotato in quel genere chill out balearico o come diavolo vogliamo chiamarlo... e forse sarebbe anche da citare Fiorello pur in altri ambiti dal karaoke ad essere un "intrattenitore" di livello forse solo pari a un Johnny Dorelli.

Insomma Vasco era libero e supportato da menti creative di grande livello, Jovanotti no, era legato ad un idea di business e niente altro da cui ha saputo liberarsi per creare il suo personaggio.
mdj64
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Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da mdj64 »

Io credo che si debba guardare soprattutto alla dimensione "live" di questi artisti, è lì che si vede la mentalità da dj.
Ricordo ad esempio un documentario su Vasco emergente (c'era ancora Massimo Riva nella band) in cui andava in giro per concerti e preparava la scaletta della serata. Ad un certo punto inseriva Cocaine e prevedeva la reazione finale del pubblico ed un "piano b" se non vi fosse stata.
Jovanotti non è importante cosa faccia (stavo per scrivere "metta"), ma come. Anche a noi può capire di dover suonare per il contesto delle minchiate, ma ci sono modi più o meno coinvolgenti e credibili per farlo.
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Re: Fare gara a sé: quanto possiamo apprezzare di Jovanotti

Messaggio da Bazzooka »

tra i big sche si sono staccati da Cecchetto, ricordiamo Max Pezzali
ma il vero "Santo" di Jiovanotti, e' stato Pippo Baudo
che gli avesse pur fatto fare peggio di Cecchetto
ma almeno lo ha messo in prima serata alla televisone nazionale ogni sabato sera
per una intiera stagione (gli e' toccato pure un SanRemo).

Augh !
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